Novembre 2008
Collaborando con la Sierra Leone Un esempio eccellente di investimento di: don Ignazio Poddighe Da diversi anni visito l'Africa, attirato dalla diversità culturale che affascina chiunque è disposto a recepirne i segnali positivi. In Burundi sono rimasto attratto dalla capacità di ripresa, dopo la guerra che ha fatto quasi un milione di morti. In Kenya, la baraccopoli di Nairobi ha segnato la mia memoria al punto da non dimenticare più quelle immagini, in cui a stento sono riuscito a vedere qualche segno di umanità dignitosa.
Imparare e collaborare La Provvidenza quest'anno mi ha spinto in Sierra Leone, terra ancora molto sofferente a causa della guerra civile, durata un decennio. Nei diversi viaggi, ogni volta ho la sensazione di imparare cose nuove. Non è utile vedere solo l'arretratezza, che talvolta avvilisce la dignità di chi è costretto a tendere la mano. Sono convinto, invece, che attraverso la diversità culturale si possono aprire strade di confronto e di collaborazione. I due motivi che ancora mi spingono verso la Sierra Leone sono proprio questi: il desiderio di imparare da chi, uscendo dalla guerra, ha saputo trovare ancora motivo per sperare in una ripresa dignitosa, e il desiderio di collaborare.
Un progetto ben riuscito La diocesi di Makeni è un modello al quale guardare per rendersi conto che, nonostante le difficoltà del dopo guerra, la speranza nell'uomo e per l'uomo non va mai perduta. Il Fatima Institute di Makeni, centro culturale voluto e creato da mons. Giorgio Biguzzi, al quale ha dedicato tutte le sue forze il saveriano di Guasila p. Ivaldo Casula, è un esempio eccellente di ricostruzione culturale e di come investire le energie per il futuro dei giovani sierraleonesi. È bello vedere che la carità spinge verso mete mai facili, in cui è necessario un grande investimento di tempo e di energie per il bene della gente. Per di più in Africa occorre pensare anche ai tempi lunghi e agli spazi ristretti. Ma ciò che è stato realizzato dimostra che il progetto è già ben riuscito. Speriamo che, in nome di quella collaborazione auspicata, anche il Fatima Institute trovi molti amici in Italia e possa diventare un centro di riferimento in Sierra Leone.
La porta sempre aperta La diocesi di Makeni si è impegnata anche nella ricostruzione di tante scuole nei villaggi, nella costruzione di pozzi per dare l'acqua alla gente, nel favorire uno sviluppo che punta alla ripresa economica e sociale. La chiesa in Sierra Leone è una minoranza che fa sentire la sua presenza forte e capace di trasformazione, attraverso le persone che lavorano per tale scopo. La convivenza religiosa è un altro punto importante che rende bello il volto della chiesa in Sierra Leone. Tutti i servizi sono offerti a coloro che hanno bisogno, senza etichette religiose o pregiudizi. È stata per me un'importante lezione vedere che tutti ricorrono al vescovo per ogni necessità. Questo può avvenire solo perché dal vescovo di Makeni si trova sempre la porta aperta.
Piccole gocce di speranza Ora bisogna lavorare duro per sostenere queste iniziative e collaborare per queste intenzioni di ricostruzione. Molti aiuti si stanno realizzando per il Fatima Institute, per l'ospedale Holy Spirit di Makeni, per il Medical Centre di Lokomasama, da parte della provincia di Carbonia-Iglesias, del comune di Carbonia, della Asl e di altri enti pubblici locali. Anche oltre l'isola, ci sono amici che lavorano con noi per questo progetto umanitario e caritativo. Tanti medici, infermieri e professionisti hanno aderito al programma per i corsi di formazione di infermieri e ostetriche, da tenersi a Makeni. Altri stanno organizzando una raccolta di fondi per contribuire alla ristrutturazione di alcuni edifici distrutti dalla guerra o per la costruzione di nuove scuole. Piccoli segni, piccole gocce che non riempiranno il vuoto, ma che sono un frammento di cuore buono dedicato alla Sierra Leone.
Il quotidiano Metronews pubblica il 16 dicembre 2008 l'intervista fatta a Mons. Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni, al ministro Alie Kamara, ministro residente del nord e a don Ignazio Poddighe. L'intervista è stata realizzata a Bergamo il 15 dicembre 2008.
L'UNIONE SARDA
Progetti di sviluppo con la collaborazione di tanti volontari, dell'Asl e della Provincia
Il grande cuore del Sulcis per l'Africa
L'esperienza nella Sierra Leone di don Ignazio Poddighe Mercoledì 04 marzo 2009
Nel paese africano i volontari del Sulcis Iglesiente sono impegnati ogni giorno nell'assistenza ai poveri.
Il cuore del Sulcis batte in Sierra Leone. A Lokomasama, per la precisione. Ovvero uno dei luoghi più poveri e dimenticati della terra, martoriato dalla guerra durata dodici anni e dove sino ad un anno fa non c'erano né acqua, né centro medico, né istruzione per i bambini. Ora, grazie all'impegno dei volontari guidati da don Ignazio Poddighe, ex amministratore parrocchiale di Bacu Abis, quella terra lontana sta cambiando aspetto e anche sui volti dei bambini è ritornato il sorriso. Decine di loro hanno la prospettiva di un futuro migliore grazie alla formula delle adozioni a distanza (che richiedono un impegno di 200 euro all'anno), e nell'immediato avranno la certezza di potere ricevere cure in strutture adeguate, istruzione e assistenza. IL RACCONTO «Abbiamo visitato per la prima volta questa parte di Africa nel febbraio del 2008 - racconta don Ignazio, rientrato due settimane fa dalla Sierra Leone e in procinto di ripartire per portare altri aiuti - siamo rimasti subito colpiti dallo stato di immensa povertà e dalla condizione di degrado in cui i bambini sono costretti a vivere». Impossibile restare indifferenti. «Così abbiamo deciso di darci da fare, iniziando la costruzione del Centro medico Giovanni Paolo II, che entrerà in funzione nel giro di qualche mese. Allo stesso tempo abbiamo avviato le opere per la realizzazione della mensa Madre Teresa di Calcutta, dove troveranno posto 350 bambini». LA SOLIDARIETÀ Il tutto grazie all'impegno, anche economico, di ogni singolo volontario, ma anche alla solidarietà di tanti cittadini del Sulcis Iglesiente. «Pur essendo un territorio che vive una condizione critica - aggiunge don Ignazio - si caratterizza per la sua generosità in favore di chi più ha bisogno. Ma la nostra rete di solidarietà ha varcato i confini del territorio e della Sardegna, spingendosi fino a Bergamo e anche a Londra. Le conoscenze di ciascuno di noi hanno permesso di coinvolgere tante altre persone che, di volta in volta, ci accompagnano nei nostri viaggi in Sierra Leone». Un aiuto è arrivato anche da molte ditte private, farmacie, amministrazioni pubbliche, come ad esempio la Asl e la Provincia che hanno fornito arredi necessari per le strutture in costruzione. Di recente il gruppo di volontari ha costituito un'associazione, presieduta da Fabio Diana, che si chiama "Lovebridges" ovvero i ponti d'amore. Quelli che sono stati costruiti idealmente partendo dal Sulcis verso l'Africa. L'associazione ha sede a Iglesias, in via Ferraris 16........... CINZIA SIMBULA
Codroipo, Equazione si mobilita per portare aiuto in Sierra Leone
CODROIPO. Solidarietà a 360 gradi per l’Associazione Equazione di Codroipo, nata una quindicina di anni fa come Bottega del mondo, occasionale punto vendita a Codroipo dei prodotti del commercio equo e solidale gestito dal locale gruppo scout e da alcuni anni diventata associazione autonoma che gestisce un punto vendita in via Candotti. Sabato sera, in occasione della cena sociale, il gruppo di Equazione, ormai oltre 80 persone, ha fatto il bilancio dei vari progetti in cui è impegnata e lanciato le nuove idee per il 2009. <In particolare – spiega Antonio Ferraioli, presidente di Equazione – abbiamo rilanciato il progetto “un percento” con cui destineremo l’1% del ricavato della bottega dei prossimi mesi, a fine giugno, al progetto Lokomasama - Sierra Leone, coordinato da don Ignazio Poddighe che assieme a un gruppo di volontari sta realizzando nella diocesi di Makeni in sierra Leone, un centro medico per 50 persone, una casa del volontario per assicurare alloggio ai medici e agli infermieri che vi lavorano, un orfanotrofio ed un alloggio per anziani soli. In tutta quella zona – spiega Ferraioli – manca del tutto il servizio sanitario assistenziale e non ci sono strutture ricettive per i bambini o gli anziani soli >. Il progetto è partito nel maggio 2008 : il centro medico è quasi ultimato, mancano solo il tetto, gli impianti elettrici e idrici, gli intonaci e l’arredamento interno, i lavori per la mensa sono iniziati a novembre, ad agosto sono cominciati quelli per la casa del volontario, mentre l’orfanotrofio e l’alloggio per gli anziani sono obiettivi per il 2009. Fra i progetti in cantiere Equazione ha poi l’adesione all’iniziativa Telefono Casa, ideata dalla Diocesi di Concordia – Pordenone, in collaborazione …………..
Domenica 22 novembre 2009
Venerdì 27 novembre 2009
L'UNIONE SARDA Sulcis Iglesiente
Solidarietà Volontari iglesienti in Sierra Leone: mercoledì udienza dal Papa
Sabato 13 marzo 2010 Presentazione del libro, spettacolo teatrale e la partecipazione all'udienza generale del Papa. È un periodo denso di appuntamenti per i volontari dell'associazione Lovebridges (presente anche su Facebook), fondata da don Ignazio Poddighe, che ha ispirato la realizzazione della missione di Lokomasama, nella Sierra Leone devastata dalla guerra. Un paese dove, grazie all'impegno del sacerdote di Iglesias sostenuto da numerosi volontari, pian piano la vita sta riprendendo il sopravvento. Nei mesi scorsi è stato pubblicato un libro, dal titolo Opotho che raccoglie numerose fotografie della missione e i racconti dei volontari. Il ricavato serve interamente per continuare l'impegno in Sierra Leone. Il libro sarà presentato anche fuori Sardegna, dove è stata creata una mobilitazione per sostenere la missione. Domani, alle 16.30 al teatro in Portico a Roma si svolgerà lo spettacolo “Regala un sorriso”. Mercoledì l'importante tappa in Vaticano, durante la quale un gruppo di volontari parteciperà all'udienza del Papa. Il 20 il libro sarà presentato a Bergamo e il 21 a Codroipo, in Friuli. Chiunque, questo l'appello costante di don Ignazio, può unirsi al gruppo per sostenere direttamente l'impegno in Sierra Leone: sia attraverso l'adozione a distanza dei bambini, sia andando personalmente nel paese africano a portare il proprio contributo. (c. s.)
Roma, 17 marzo 2010: Love Bridges in piazza San Pietro
28 giugno 2010
L'UNIONE SARDA
Provincia Sulcis - Iglesias
L'esperienza Nella Sierra Leone per far rinascere una terra devastata
«È arrivato in terra africana da “semplice” sacerdote. La lascia, dopo oltre due anni di impegno per riportare la vita in un pezzo di mondo devastato dalla guerra civile, con il titolo di paramount chief onorario. Il che, per i musulmani della Sierra Leone, significa capo supremo, il titolo più alto della loro cultura. A guadagnarselo è stato don Ignazio Poddighe, sacerdote della Diocesi di Iglesias, uomo di Chiesa più incline verso l'impegno sociale e missionario che parrocchiale. Laureato in Scienze dell'educazione, specializzato in Teologia morale, autore del libro “Coscientizzazione ed esperienza religiosa”, nel '94 è stato nominato segretario dell'allora vescovo Arrigo Miglio. Insegnante di Morale e Bioetica, cappellano del carcere a Iglesias e sacerdote a Bacu Abis, nella primavera di due anni fa ha deciso di impegnarsi in prima persona in favore degli “ultimi tra gli ultimi”: i bambini della Sierra Leone, stato affacciato sull'oceano nella parte occidentale dell'Africa, gravemente ferito dalla guerra civile che arruolava anche i bambini. Quei piccoli, spesso orfani, per i quali cibo e acqua, libri e quaderni, medicine sono da considerarsi un lusso. Ma ora, a poco più di due anni dall'avvio del progetto, si può cominciare ad usare il tempo passato. Perché a Lokomasama, don Ignazio e il gruppo di volontari dell'associazione Lovebridges (non a caso i ponti dell'amore), hanno costruito pozzi, una scuola, una mensa, un ospedale e il centro di accoglienza per i volontari che, anche in futuro, continueranno a prodigarsi per l'Africa. Spera di poterlo continuare a fare anche lui, paramount chief Bai Shebora Sheba Bullom terzo, che ha ricevuto in dote anche un pezzo di terreno affacciato sull'oceano. «Terra che donerò immediatamente all'associazione di volontariato», si affretta a precisare il religioso appena rientrato dall'Africa. Felice per il riconoscimento ricevuto, non in quanto tale, bensì come esempio evidente dell'integrazione tra culture e religioni diverse. «È l'aspetto più importante perché significa che tra musulmani e cristiani la convivenza può essere pacifica e all'insegna del rispetto reciproco». Poi racconta della cerimonia solenne, alla presenza di tutti i capi dei villaggi, della vestizione e incoronazione in forma riservata e della grande festa. Per finire con l'incontro con il presidente della Repubblica che ha promesso una visita nella missione e ha chiesto a don Ignazio di continuare il suo impegno per l'Africa. Intanto continua la vendita del libro “Opotho” (uomo bianco) realizzato dai volontari dell'associazione che, ogni venerdì, sono presenti in centro storico in occasione di Notteggiando.
CINZIA SIMBULA
L'UNIONE SARDA sabato 25 settembre 2010
dal nostro inviato LORENZO PAOLINI
IGLESIAS. Sotto, terreno bucato come groviera, una vocazione mineraria palpitante. Sopra, in superficie, una povertà da brividi. Sorpresa: non si parla né di Sulcis né di Iglesiente. Che c'entrano, per carità. Ma come provincia benefattrice, a cui rivolgere tutte le albe del mondo un'imponente serie di preghiere di ringraziamento. La Sierra Leone nel mappamondo è un po' più giù: Africa, non troppo distante dall'Equatore, versante Atlantico, confini con Guinea e Liberia, protettorato britannico per secoli. <<il secondo paese più povero del mondo, per intenderci>>. Chissà cosa pensano, quei 200 bambini che fanno colazione ogni mattina, di questo lontano posto delle favole che risponde al nome di Siliqua da cui sono piovuti soldi, persone e affetto. O dell'amena Bacu Abis, della deliziosa San Giovanni Suergiu. O dell'esotica Cagliari, per mirare proprio in alto. Aver salva la vita, non morire di malaria o di fame, vuol dire benedire Campidano e dintorni. Altro che Sulcis della disoccupazione e della grande fuga: terra promessa che raccoglie in tre anni il tanto per costruire ospedale, mensa, case e quel che verrà dopo. Tanto da costringere il ministro del Nord a prendere l'aereo per ringraziare di persona tutti, dal ministro Franco Frattini a Roma a Tore Cherchi a Carbonia. <<We pray for Sardinia, for Italy>>, dice Alie Kamara.
IL TRUCCO DELL'INVITO. Il tono è quello del venga-a-prendere-un-caffè-da-noi. Padre Ignazio Poddighe ha sperimentato la tecnica da qualche anno. Gli chiedono conto dell'Africa nera, di quei bambini miracolosamente salvati: come possiamo renderci utili? <<Offrono soldi, oggetti. Io dico: venite voi a portarli>>. E' stato così che questo sacerdote di 45 anni , iglesiente, in tre inverni ha visto passare un centinaio di persone. Venute, appunto, <<a dare una mano>>. Giovani e vecchi, disoccupati e professionisti. <<Ho scoperto che è vero che le cose si fanno con le promesse dei ricchi e i soldi dei poveri>>. Anche se, nel suo caso, il proverbio non è esattamente affidabile. Perché tanti notabili che non hanno piacere di essere nominati hanno fatto partire dalla Sardegna, dentro container, una sala operatoria completa di tutto e un carico di medicinali più prezioso dell'oro. * * * CURATO DI CAMPAGNA La sua storia di sacerdote era iniziata in un modo, se si può dire, ordinario. Studi alla facoltà teologica di Cagliari, poi segretario dell'allora vescovo Arrigo Miglio, cappellano del carcere, con Tarcisio Pillola amministratore parrocchiale a Bacu Abis. Trascorre oltre un lustro nella frazione che fu mineraria. A Giovanni Paolo Zedda, nuovo capo della diocesi, prospetta un percorso alternativo: passare qualche tempo in una missione per seguire un istinto che si era fatto vocazione. Permesso accordato. «Ero già stato in alcune diocesi africane. Conoscevo il Burundi, nel periodo in cui ero lì erano stati uccisi diversi sacerdoti cattolici. Avevo trascorso del tempo in Kenya, lì la situazione era migliore». Non è uomo da stereotipi: «Gli africani hanno una mentalità diversa dalla nostra, non è mai troppo tardi per capirlo. Non soffrono a vedere che qualcuno fa una vita migliore della loro, anzi godono a poter in qualche modo partecipare». Alla fine sceglie la Sierra Leone, Paese in testa a un sacco di classifiche mondiali: mortalità infantile, reddito pro capite, malaria. Eppure, dopo la guerra civile, faticosamente democratico, si affanna a spiegare il ministro. Ci sono più partiti, più religioni che non sono l'una contro l'altra armate, libera stampa e diritto di critiche al governo. Poi en passant si ricorda la tragedia dei bambini soldato, la scia di sangue del traffico di diamanti.
PERCHÉ L'AFRICA Glielo chiedono tutti. Una parrocchia di frontiera nel Sulcis più rock , un esercito di anime che spesso si scontra con l'esigenza di mettere insieme pane e companatico. Che bisogno c'era di partire per la giungla? Padre Ignazio sorride: «È questione di priorità, di numeri. Qui ci sono 100 preti per 150 mila abitanti, a Makeni 25 per due milioni. Qui capita di rado, per fortuna, che un bambino di 2 anni ti muoia in braccio per la fame. Che un ragazzino di 15 crepi perché non ha una pastiglia contro la malaria. Quattrocento piccoli su mille muoiono prima dei 5 anni». Per questo, quando ha messo piede nella Sierra Leone, aveva già le idee chiare. «Ho pensato alla formula scelta dai Padri Missionari nella missione del Burundi, diventata lo schema organizzativo nel Paese». Niente di trascendentale: autogestione. Nessun contributo a perdere passando per il Governo locale ma borsellino in mano e presenza in loco. «Un nostro volontario, al ritorno in Sardegna, ha scritto all'Unicef: perché non ho visto segni della vostra presenza eccetto le toilette chimiche? Risposta: caro signore, noi collaboriamo con i Governi».
L'ACQUISTO Il primo passo è stato l'acquisto di quattro ettari di terra (giungla) per cinquemila euro. Quattrini personali che padre Ignazio aveva messo da parte. «Si poteva legittimamente spendere un decimo ma ho preferito che tutti i piccoli proprietari di quelle terre fossero contenti». A quel punto è arrivato il primo squadrone di fedeli sulcitani, quelli preoccupati che il loro sacerdote fosse finito chissàdove. «C'erano tanti infermieri e abbiamo monitorato perché morivano tante persone. Sciocchezze, soprattutto gastroenteriti». A quel punto la voce aveva iniziato a girare, una sorta di contagio virale di disponibilità e volontariato. Sono arrivati i primi medici. Poi il ristoratore di successo che ha chiuso la baracca per mesi inseguendo l'esperienza di una vita. Poi il farmacista di Carbonia che ha messo a disposizione esperienza e magazzino. E quattrini, naturalmente, moto ondoso di donazioni in aumento costante. «Per costruire ospedale, mensa e case, abbiamo scelto Lokomasama, un paesino nel nulla sul quale gravitano però 350 villaggi». Si è deciso che tutto sarebbe stato intestato alla diocesi locale. Poi è cominciata la trattativa. «Ho fatto ai capivillaggio un discorso chiaro: noi mettiamo soldi e tempo per costruire un ambulatorio che salvi i tuoi figli, tu devi mettere gratis la manodopera».
LOVE BRIDGES L'associazione di volontariato è nata praticamente da sé. Una risposta naturale, spontanea. Composizione: ottanta per cento dal sud della Sardegna, più viandanti di ogni ordine e grado che lungo strada si sono invaghiti del progetto. «Per dire, Linda Mitchell, una giornalista della Bbc, ha mollato tutto per aiutarci nel progetto». L'imprevedibile non previsto. Compresa la genialata di costruire un libro bellissimo (“Opotho, uomo bianco”, www.associazionelovebridges.org , www.opotho.it ). Una sorta di diario di bordo in cui ciascuno ha raccontato la sua storia, con le fotografie belle e spiazzanti di Alessandro Pintus e Alessandro Peralta (volontari) e la grafica di Luca Melis (manco a dirlo, volontario). Un'azienda benemerita si è accollata i costi di stampa mentre Padre Ignazio ha girato come una trottola per presentare il volume, un prodigio di austerità e sguardi asciutti. Strappacuore. Morale: cinquantamila euro tondi tondi da buttare dentro l'ospedale. «Per dire, ventimila solo da Bergamo».
UN FARO NEL VUOTO Oggi l'ospedale, 1500 metri quadri, è completo. Pronto soccorso, strumentazione chirurgica d'avanguardia nella sala ospedaliera, lettini, sterilizzatori che sembra poco ma sono macchine salvavita, 30 posti letto, grande farmacia, un laboratorio. «Le analisi del sangue sono inverosimili, usano vetrini sporchi. A Lokomasama, con i nostri macchinari elettronici, non accade più». Sono finite anche le due case costruite per ospitare i volontari. «I primi due anni non sapevamo mai dove andare a dormire, una notte dai comboniani, un'altra dai salesiani. Adesso chi va lì sa che troverà un letto, un bagno e una cucina». Un'altra falange di appassionati è in partenza: c'è chi va in aspettativa non retribuita, chi un lavoro non ce l'ha e sceglie di impiegare gratis i suoi talenti altrove.
IL RIENTRO A ottobre per padre Ignazio suona la campanella di fine corsa, si rientra a casa: «Anche se io in Sierra Leone tornerò sempre e l'esperienza non morirà più». Dovrebbe essere un ordine di suore infermiere che arriva dalla Polonia a prendere in carico ospedale e mensa dei bambini, un cagliaritano e un sulcitano hanno già dato la disponibilità a restare lì in pianta stabile. «A chi teme che non sia una soluzione definitiva, rispondo sempre: per due anni, se anche finisse, questi bambini avranno fatto colazione, pranzo e cena». E scusate se è poco. Il Governo lo ha ricambiato nominandolo Paramount chief onorario, una supercarica territoriale che lo mette praticamente alla pari del presidente della Repubblica. L'ultimo nominato, per capirsi, è stato Tony Blair. Una star che, agli occhi dei sierraleonesi, cede il passo solo a una celebrità assoluta: Mohammed Kallon, 31 anni, da Freetown (capitale dello Stato). Oggi attaccante della Nazionale e di una squadra cinese, dodici anni fa nel Cagliari. Quando Massimo Cellino ha invitato ministro e seguito alla stadio Sant'Elia, c'era un emozione da tagliare a fette. Padre Ignazio è grande. Ma l'erbetta su cui ha corso Kallon non ha rivali.
L'UNIONE SARDA Martedì 28 dicembre 2010
Il calendario
Dodici mesi di solidarietà per i bambini
Non è un calendario qualunque. Scorrendo i mesi su “Opotho 2011”, annotando le varie ricorrenze da gennaio a dicembre, pensando ai propri momenti belli e a quelli che evocano tristezza, magari capiterà che si apra la finestra su un mondo diverso: una terra, la Sierra Leone, poverissima dove i bambini muoiono per le malattie più banali. Ma una terra, anche, dove guerra, povertà e ingiustizie non sono stati capaci di portare via la gioia di vivere. Più che fare un dono ai bambini della Sierra Leone, con un'offerta per avere il calendario pensato e realizzato dall'associazione Lovebridges di don Ignazio Poddighe, lo si riceve: «Mancano ancora tante cose ai bimbi sierraleonesi, per questo abbiamo bisogno dell'aiuto di tutti - spiega il sacerdote - una cosa però possiamo prenderla noi da loro: la gioia di vivere ogni giorno del calendario come fosse un regalo». In due anni e mezzo i volontari hanno realizzato grandi opere a Lokomasama: mensa, centro medico, servizi che prima non esistevano. Un piccolo miracolo reso possibile grazie all'impegno di tanti benefattori che, con le loro offerte e l'impegno diretto nella missione, hanno cambiato il destino di tanti bimbi. (c. s.)
L'UNIONE SARDA Venerdì 14 gennaio 2011
Cultura
Don Ignazio Poddighe, la Sierra Leone e il progetto Lovebridges: in un incontro a Cagliari l'importanza di un progetto di solidarietà reale
Sardegna-Africa, un ponte d'amore “È più quello che ti porti via che quello che lasci”. Carla, giovane volontaria, lo sussurra asciugandosi le lacrime nel buio della sala dell'Umanitaria, mentre scorrono immagini della madre Africa, immagini di bambini che sorridono, di un piccolo ospedale appena realizzato, di piatti di riso giallo pronti, tanti piatti, tanti sorrisi, tanti bambini, e ragazzi, quelli che sono stati bambini soldato e ora hanno vent'anni e si rispecchiano nell'abisso. Mercoledì di traffico in viale Trieste, a Cagliari, di raccoglimento profondo, quasi contemplativo, nella Cineteca sarda. Pia Pettograsso introduce: si parla di una persona di quelle che la chiamata l'hanno declinata in lavoro sodo in missioni nei lembi più diseredati del pianeta. Solo un disegno diverso di vivere la vocazione, a contatto con le convulsioni del mondo prima che con l'incenso delle sacrestie. Padre Ignazio Poddighe di Iglesias ha scelto la Sierra Leone, un puntino nel continente, una parte per il tutto: anche lì miseria e assenza. «Non hanno niente, eppure sono felici», sussurra ancora Carla, impastando la commozione a uno dei nodi cruciali della nostra opulenta civiltà occidentale: che abbiamo tutto e non siamo felici. Perché l'abbondanza uccide il desiderio. Perché il nostro spreco affama loro, come diceva Madre Teresa. E donazioni ad associazioni no profit, cinque per mille, adozioni a distanza, hanno sempre più il sapore di un correttivo, un modo per sentirsi meglio stando a distanza di sicurezza da quelle realtà ingombranti. Vero è che a far del bene si può cominciare dal proprio pianerottolo. Don Ignazio confessa di non aver mai dato un soldo ad associazioni, prima di farne una sua. «C'è qualcosa che non torna se l'Africa, dopo tutti questi aiuti, non cambia». Dopo visite in Burundi e Kenya, dove l'ex presidente, tal Moi, era il quinto uomo più ricco del mondo, don Ignazio capisce che contro realtà governative così è difficile fare qualcosa di buono e giusto. Va in Sierra Leone, fronte atlantico, un'unica strada, cinque ospedali, sei milioni di abitanti, trenta euro al mese per un uomo che lavora, 12 anni di guerra civile, fino al 2002, causa traffico diamanti, braccia mozzate, bambini soldato. Il mal d'Africa, non nella suggestione poetica, spazza via il profumo dell'incenso, entra nella coscienza del religioso e di un manipolo di volontari. Lovebridges (www.associazionelovebridges.org) è il ponte dell'amore che unisce la Sardegna a questo puntino africano. Che ha portato alla costruzione di un ospedale, una mensa per i bambini, due case di accoglienza, cinque pozzi d'acqua, una scuola elementare avviata, cure mediche, programmi nutrizionali. Questo in un anno e mezzo. Per il 2011 don Ignazio alza il tiro, con programmi per donne e uomini: produzione artistica e colorazione dei tessuti tradizionali e gestione della pesca. Perché «c'è una forma di colonizzazione moderna peggiore dell'antica: l'assistenzialismo. Noi non siamo gli uomini bianchi che portano cose e poi se ne vanno: noi restiamo». Scorrono le immagini del già fatto: un terreno tutto di palme, poi lo stesso col centro medico finito, arredato, i macchinari, i letti di ferro coi materassi, un'incubatrice. Una donna incinta, in Sierra Leone, paga una visita 12 euro, la sanità tutta si paga. E mica dissertano di malasanità, piuttosto vedono in don Ignazio un uomo sopra ogni fede e politica. Così, un paese all'80% musulmano l'ha nominato Paramount chief, massima carica onoraria, capo supremo. «Se mi avessero fatto, qui, monsignore, non sarei stato così felice». E lui, che in Africa si sente sempre ospite, perché non è lì per evangelizzare né per imporre la propria cultura, invita tutti ad andare. «Ci ridimensiona, venite per voi stessi, poi decidete se dedicarvi agli altri». «Aiuta davvero soltanto l'aiuto che aiuta a eliminare l'aiuto», chiosa Claudia, un'altra volontaria, citando il filosofo Joseph Ki-Zerbo. Madre Africa aspetta.
RAFFAELLA VENTURI
18 aprile 2011
L’UNIONE SARDA Domenica 8 maggio 2011
Don Ignazio Poddighe
Africa, attenti all'illusione di essere utili
«Assicuratevi bene prima di illudervi di avere aiutato qualcuno». È l'epigrafe con cui don Ignazio Poddighe di Iglesias inizia la sua analisi degli aiuti al Terzo Mondo. Compare nel notiziario dell'associazione di volontariato missionario Love Bridges, che ha fondato tre anni fa assieme a un manipolo di persone, di quelle che i giorni di ferie li trascorrono in Sierra Leone a lavorare sodo per gli altri. Eccoli, “gli altri”: sono N'Pha, Mohamed e Shebora, tre giovani della Sierra ospitati per tre mesi nella comunità di Uta di padre Salvatore Morittu, per apprendere l'uso delle macchine da falegnameria, sotto la guida del maestro falegname Aldo. Sono tornati nel loro paese con un patrimonio di conoscenza: lo metteranno in pratica nella falegnameria che l'associazione sta per realizzare in un locale donato dal Capo Supremo della Provincia del Kaffu Bullom. “Gli altri” sono tre giovani fieri nella loro divisa, pantaloni e cravatta blu, camicia bianca, scarpe stringate. La didascalia dice: “Abbiamo pagato la loro divisa e li abbiamo mandati a scuola”. Non solo loro, tanti bambini e ragazzi vengono scolarizzati dall'associazione. “Gli altri” sono i bambini nel refettorio che mangiano seduti su panche, quelli negli ambulatori che vengono vaccinati. Le donne che vanno a prendere l'acqua al pozzo di Mabendu, edificato un anno fa. “Gli altri” sono quell'entità confusa e triste che nell'opulento Occidente non sono la nostra storia. Al massimo, un pensiero da cinque per mille. Don Ignazio la sua battaglia la conduce su due fronti: il lavoro quando si trova in Sierra Leone, e l'informazione quando è qui. Informazione, non proselitismo. Anche se è il verbo cristiano a orientarlo, quest'uomo dal sorriso disarmante parla con disincanto delle “buone azioni”. E descrive un mondo che sfugge ai più, a chi, mosso da buoni sentimenti destina una somma a donazioni varie. Cita una famosa e contestata economista, Dambisa Moyo, che ripete nei suoi interventi che «gli aiuti all'Africa uccidono l'Africa», riferendosi a quel movimento di organizzazioni che mandano fiumi di denaro sui conti bancari dei dittatori. Suo “La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo Mondo” (Rizzoli). «Dare a ciascuno ciò che gli spetta», dice don Ignazio, «non è certo un processo facile, ma cerchiamo almeno di dare a coloro per i quali abbiamo chiesto, quasi mendicando, ciò che abbiamo raccolto e diamolo nella maniera giusta». La differenza la fa l'esserci in prima persona, come lui, che nel notiziario dell'associazione pubblica il rendiconto economico 2010. «C'è qualcosa che non torna se l'Africa, dopo tutti questi aiuti, non cambia». Loro ci sono, fisicamente, là dove non c'era nulla, con i piccoli risparmi di tante persone. Andranno avanti nei villaggi di Mamankie, Mabendu, Yongro e Mahera, ambulatori, scuole, pozzi. Anche un corso di tintura di tessuti. E la falegnameria. Gli altri sono loro, loro sono gli altri. www.associazionelovebridges.org
Raffaella Venturi
L'UNIONE SARDA Lunedì 08 agosto 2011
Con Nicholas fuori dall'orrore
Intona una dolce melodia della sua Africa, mentre con mani addestrate tornisce un vaso, assottigliandogli i bordi, aggiustandogli la curvatura, cercando di farlo meglio del precedente, nel graduale cammino verso l'equilibrio fra le parti. L'equilibrio fra le parti della sua vita, fra un terribile prima, di bambino soldato a 12 anni, e un miracoloso dopo, di incontro, a 17, con una comunità di recupero, pare conquistato. Come si faccia a ricucire un presente di tale perizia manuale, e tale serenità nello sguardo, a un passato di infanzia violata dalla distruzione, si può spiegare solo con l'amore. Quello che Nicholas, 26 anni, ha conosciuto in Sierra Leone, prima nelle persone che lo hanno recuperato insegnandogli a forgiare e cuocere l'argilla, poi nell'incontro con don Ignazio Poddighe di Iglesias, che in quello stato dell'Africa, depresso da otto anni di guerra civile, ha costituito una realtà di volontariato missionario, l'associazione Love Bridges: in tre anni ha costruito ambulatori, scuole, pozzi, portando avanti programmi nutrizionali e di insegnamento, come quello sulla colorazione dei tessuti tradizionali, per le donne del villaggio Mamankie, e quello di gestione della pesca, per gli uomini di Mahera. Una di quelle persone, don Ignazio, e con lui tutti i suoi stretti collaboratori, che rappresentano nel mondo la Sardegna più alta, quella della solidarietà e del darsi all'altro, lontana anni luce da quell'immagine patinata e vuota di paradiso delle vacanze. Ma persone del dare, e del dare in silenzio, seguendo i progetti di don Ignazio, ce ne sono diverse anche sul territorio. Ad Assemini, per esempio. Dopo l'esperienza dei tre giovani sierraleonesi ospitati per tre mesi nella falegnameria della comunità di Uta di Padre Morittu, perché imparassero l'uso dei macchinari, è la volta dell'incontro fra un maestro torniante come Giovanni Deidda e Nicholas, che nel frattempo, con un padre ucciso in guerra e cinque sorelle, sta studiando tecnologia informatica all'università del suo paese e, da un mese e mezzo, sta specializzandosi come torniante presso il laboratorio di Giovanni. Che per Nicholas è due persone in una: il professore e Gianni. Racconta le sue settimane asseminesi, con un maestro molto esigente, che si fa capire dimostrando con le mani e con gli sguardi, e un contesto d'accoglienza che lo fa sentire in famiglia. La sua famiglia allargata è quella di Antonello e Mariella Carboni, che lo ospitano, di Giuseppe Picciau e Pia Pettograsso che lo aiutano ad integrarsi, di Gianni Deidda e moglie, che quando ha saputo che fra poco Nicholas si trasferirà alla volta di Domusnovas, per imparare a fare tegole, è rimasta ammutolita. Nicholas era già - e sarà - un figlio adottato, insomma. Un ragazzo che Gianni Deidda, presente all'ultima Biennale dell'artigianato di Sassari (quella che ha vinto due Compassi d'oro) con manufatti firmati da designer come Paolo Iacchetti e Paolo Ulian, ha accolto a bottega svelandogli i segreti del mestiere: il graffito, l'ingobbio, la sfoglia di argilla. Tutte cose che potranno arricchire il suo lavoro una volta rientrato in Sierra. Quando alle bugie per candele e stoviglie, Nicholas potrà aggiungere pentolame e brocche di stampo - e cuore - tutto asseminese.
Raffaella Venturi
L'UNIONE SARDA 1 novembre 2011
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